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giovedì 18 novembre 2010

L’importanza dell’Ossido nitrico. Una molecola strategica per i sistemi antiossidanti dell’organismo

L’importanza dell’Ossido nitrico. Una molecola strategica per i sistemi antiossidanti dell’organismo

Dr. Prof. Eugenio Luigi Iorio, MD, PhD Docente Scuola Specializzazione Biochimica Clinica – Seconda Università di Napoli (Napoli). Presidente Comitato Scientifico Osservatorio Internazionale Stress Ossidativo (Parma)

L’ossido di azoto (NO), impropriamente chiamato ossido nitrico, è una specie chimica reattiva di natura radicalica centrata sull’azoto. Considerato per decenni un gas altamente inquinante – responsabile, tra l’altro, del cosiddetto “buco dell’ozono” – solo in epoca molto recente esso è stato individuato come uno dei più potenti mediatori biochimici che gli organismi viventi producono al loro interno al fine di controllare molte delle loro funzioni (1).

È sicuramente degno di nota il fatto che a questa sostanza sia legato il premio Nobel 1998 per la Medicina/Fisiologia, attribuito, appunto, al ricercatore americano Louis Ignarro “per le sue scoperte riguardanti l’ossido nitrico come molecola segnale nel sistema cardiovascolare” (2). Sei anni prima, la prestigiosa rivista scientifica “Science” aveva eletto l’NO come “molecola dell’anno” (3).

L’NO è una sostanza abbastanza ubiquitaria prodotta a partire dall’amminoacido L-arginina in una reazione multi-step catalizzata dall’enzima ossido nitrico sintetasi (figura 1). Quest’ultimo esiste in numerose isoforme, alcune costitutive (cellule endoteliali, piastrine, sistema nervoso) ed altre inducibili (macrofagi, leucociti polimorfonucleati, cellule endoteliali, cellule muscolari lisce, epatociti), e ciò dà ragione dell’ampia distribuzione dei siti di produzione dell’importante mediatore nel nostro organismo (4).

Figura 1. Sintesi schematica dell’ossido nitrico a partire dalla L-arginina Nei sistemi biologici, l’NO agisce come un importante messaggero intra- ed inter-cellulare regolando numerosissime funzioni, in primis quella dell’endotelio vascolare (1). Infatti, in seguito ad adeguata stimolazione (meccanica o chimica), le cellule endoteliali producono l’NO che, in parte, diffonde nel compartimento ematico, riducendo l’aggregabilità delle piastrine e l’adesività dei leucociti alle pareti dei vasi sanguigni, e, in parte, raggiunge la sottostante muscolatura liscia vascolare inducendone il rilasciamento. I conseguenti effetti anti-aggreganti, anti-infiammatori ed anti-ipertensivi sono ritenuti di grande importanza nella prevenzione dell’aterosclerosi (1). D’altronde, i famosi nitriti esteri e la stessa nitroglicerina sublinguale (Carvasin®), ampiamente usati come anti-anginosi decenni prima della “scoperta” dell’NO, sono, in realtà, dei “donatori” di questo mediatore ed è relativamente recente la messa a punto delle nitro-aspirine, derivati “nitrati” dell’acido acetilsalicilico in grado di rilasciare NO a livello periferico (1, 5). Rimanendo nell’ambito della farmacologia cardiovascolare, giova anche sottolineare che il sildenafil (Viagra®) agisce “prolungando” la durata d’azione dell’NO a livello dei corpi cavernosi del pene, contribuendo in questo modo a migliorare la funzione erettile, variamente compromessa nell’impotenza maschile (1).

Oltre all’effetto primario sull’endotelio, all’NO è riconosciuto un ruolo determinante di mediatore biochimico in numerose funzioni, a livello cerebrale (es. controllo dell’apprendimento e della memoria), gastrointestinale (modulazione delle secrezioni e della motilità), respiratorio (modulazione del tono della muscolatura liscia bronchiale), renale (autoregolazione del flusso ematico), e così via (6, 7). All’NO, in quanto radicale, è attribuita un’importante funzione di difesa nei confronti delle infezioni batteriche e, probabilmente, nel controllo della crescita dei tumori (7). A questo proposito occorre aggiungere, comunque, che condizioni di aumentato stress ossidativo – es. eccessiva produzione di anione superossido – comportano la conversione dell’NO in perossinitrito, una forma radicalica alla quale è legata la tossicità del mediatore primario (8).

Dopo che ha agito, l’NO viene trasformato in una serie di derivati, quali i nitriti ed i nitrati, che si accumulano, in funzione della quantità del mediatore primario prodotto, nel sangue ed in altri fluidi extracellulari per poi essere definitivamente allontanati dall’organismo attraverso le urine. Infatti, numerosi studi sperimentali e clinici hanno documentato che i livelli plasmatici ed urinari di nitriti/nitrati correlano abbastanza bene con la produzione “endogena” di NO, anche dopo particolari terapie (9).

Poiché la ridotta biodisponibilità dell’NO (figura 2) è ritenuta responsabile dell’insorgenza e/o dell’aggravamento di numerose quanto diffuse e temibili malattie, quali l’ipertensione arteriosa e l’aterosclerosi (2, 6-9), numerosi studi hanno valutato la possibilità di aumentare la sintesi endogena del mediatore centrato sull’azoto attraverso l’integrazione alimentare.

Figura 2. Biodisponibilità dell’ossido nitrico e malattie (NOS, ossido nitrico sintetasi, ONOO-, perossinitrito) La strada più battuta, in tal senso, è stata la somministrazione di dosi generose di L-arginina per via orale. Infatti, come si è detto in precedenza, questo amminoacido semi-essenziale (10) è il diretto precursore dell’NO (2).

In tale contesto, studi condotti su animali da laboratorio hanno dimostrato che l’integrazione alimentare con L-arginina, favorendo la sintesi di NO, accelera la guarigione di ulcere in ratti diabetici Sprague-Dawley (11), migliora la disfunzione endoteliale in hamster resi sperimentalmente iperlipemici-iperglicemici (12) ed esercita un effetto benefico sull’ipertensione ed il metabolismo lipidico

in ratti diabetici (13). Questi favorevoli effetti, confermati recentissimamente anche in ratti resi diabetici mediante streptozotocina (14), dimostrano che è sperimentalmente possibile, attraverso l’aggiunta di L-arginina alla dieta, migliorare la sintesi endogena di NO e revertire gli effetti sfavorevoli dovuti ad una ridotta biodisponibilità del mediatore. D’altra parte, sembra che la carenza di arginina eserciti di per sé effetti deleteri sullo sviluppo del sistema linfoide in animali da esperimento (15).

Studi condotti sull’uomo hanno confermato ed esteso le potenziali indicazioni “terapeutiche” della L-arginina che, sia come tale – grazie all’attività immuno- ed endocrino- modulatrice – sia, soprattutto, come precursore dell’NO, si sta rivelando particolarmente utile nel trattamento di numerosissime patologie, dalle varie forme cliniche della cardiopatia ischemica, quale l’angina pectoris, alla claudicatio intermittens, dall’ipertensione arteriosa all’insufficienza cardiaca congestizia, dalla preeclampsia alla disfunzione erettile (16-19). Inoltre, gli effetti dell’integrazione alimentare con L-arginina sono stati valutati anche nella terapia dell’AIDS, del diabete, della sindrome X, di alcune malattie gastrointestinali, dell’infertilità maschile e femminile, della cistite interstiziale e della demenza senile, con risultati molto interessanti (16, 20). Infine, esperimenti condotti su topi indicano che la L-arginina migliora le prestazioni muscolari in regime di esercizio aerobico attraverso un aumento della produzione di NO, e ciò conferma il già noto ruolo di questo amminoacido sulle performance atletiche (21).

Nel complesso, quindi, i dati sperimentali e quelli clinici qui analizzati, dimostrano univocamente che l’aggiunta di moderate quantità di L-arginina alla dieta abituale può migliorare alcune condizioni fisio-patologiche attraverso un aumento della sintesi endogena dell’NO, importantissimo mediatore biologico, di cui l’amminoacido è il diretto precursore.

Oggi sono disponibili numerose formulazioni orali a base di L-arginina, tra le quali andrebbero preferite quelle arricchite con antiossidanti, quali il selenio. Infatti, in talune circostanze, quali quelle legate allo stress ossidativo (squilibrio fra produzione ed inattivazione di specie reattive dell’ossigeno, quali l’anione superossido) l’NO, pur prodotto in quantità adeguate, viene rapidamente convertito in sottoprodotti biologicamente inattivi o addirittura tossici (es. perossinitrito) (vedi figura 2). Pertanto, sebbene la L-arginina possa esercitare di per sé un’azione anti-radicalica (22), la presenza di un antiossidante nella sua formulazione, è potenzialmente in grado di aumentare in maniera più efficiente la “biodisponibilità” dell’NO, sia fornendo il precursore fisiologico (L-arginina) sia neutralizzando le specie chimiche reattive che tenderebbero ad inattivarlo (selenio).

Le “dosi” di L-arginina da assumere variano a seconda delle indicazioni (23). Ovviamente, come per qualsiasi sostanza introdotta nel nostro organismo, vale la precauzione di ordine generale di consultare il medico prima dell’uso e di non abusare di queste formulazioni in termini di dosi e/o durata del trattamento. In particolare, sebbene alla usuali dosi, la L-arginina è ben tollerata – in quanto amminoacido normalmente presente nelle proteine – essa non dovrebbe essere assunta da soggetti in trattamento con sildenafil (Viagra®) o nitroglicerina, perché questi farmaci potenziano l’azione dell’NO, aumentando il rischio di tossicità da superdosaggio (23).

Bibliografia 1. Brennan PA, Moncada S. From pollutant gas to biological messenger: the diverse actions of nitric oxide in cancer. Ann R Coll Surg Engl.2 0 0 2. 84(2): 75-78. 2. Ignarro LJ. Nitric oxide: a unique endogenous signalling molecule in vascular biology. The Nobel Prize 1998 Medicine/Physiology Lecture.1 9 8 8. 3. Snyder SH. Nitric oxide: first in a new class of neurotransmitters? Science.1 9 9 2. 257: 494-496. 4. Förstermann U, Boissel J-P, Kleinert H. Expressional control of the ‘constitutive’ isoforms of nitric oxide synthase (NOS I and NOS III). FASEB J.19 9 8. 12: 773–790. 5. Ignarro LJ, Napoli C, Loscalzo J. Nitric oxide donors and cardiovascular agents modulating the bioactivity of nitric oxide. An Overview.2 0 02. Circ Res. 90: 21-28. 6. Ignarro LJ. Biological effects of nitric oxide. Proceedings of the “1st International meeting on nitric oxide. From basic science to clinical evidence”. Barcelona, Spain. 2003, May, 24.2 00 3. 7. Ignarro LJ. Plenary lecture. Proceedings of the “1st International meeting on nitric oxide. From basic science to clinical evidence”. Barcelona, Spain. 2003, May, 24.2 00 3. 8. Channon KM, Qian HS, George SE. Nitric oxide synthase in atherosclerosis and vascular injury. Insights from experimental gene therapy. Arterioscler Thromb Vasc Biol.2 0 0 0. 20: 1873–1881. 9. Fujiwara N, Osanai T, Kamada T, Katoh T, Takahashi K, Okumura K. Study on the relationship between plasma nitrite and nitrate level and salt sensitivity in human hypertension modulation of nitric oxide synthesis by salt intake. Circulation.2 0 0 0. 101: 856-861. 10. Lehninger AL, Nelson DL, Coc MM. Principi di Biochimica.1 9 94. 2: 563. Zanichelli, Bologna. II Ed. 11. Witte MB, Thornton FJ, Tantry U, Barbul A. L-Arginine supplementation enhances diabetic wound healing: involvement of the nitric oxide synthase and arginase pathways. Metabolism.2 0 0 2. 51(10): 1269-1273. 12. Popov D, Costache G, Georgescu A, Enache M. Beneficial effects of L-arginine supplementation in experimental hyperlipemia-hyperglycemia in the hamster. Cell Tissue Res.2 0 02. 308 (1): 109-120. 13. Kawano T, Nomura M, Nisikado A, Nakaya Y, Ito S. Supplementation of L-arginine improves hypertension and lipid metabolism but not insulin resistance in diabetic rats. Life Sci.2 0 0 3. 73 (23): 3017-3026. 14. Kohli R, Meininger CJ, Haynes TE, Yan W, Self JT, Wu G. Dietary L-arginine supplementation enhances endothelial nitric oxide synthesis in streptozotocin-induced diabetic rats. J Nutr.2 0 04 . 134(3): 600-608. 15. de Jonge WJ, Kwikkers KL, te Velde AA, van Deventer SJ, Nolte MA, Mebius RE, Ruijter JM, Lamers MC, Lamers WH. Arginine deficiency affects early B cell maturation and lymphoid organ development in transgenic mice. J Clin Invest.2 0 0 2. 110 (10): 1539-1548. 16. Appleton J. Arginine: clinical potential of a semi-essential amino acid. Altern Med Rev.2 002. 7 (6): 512-522.

17. Wu G, Meininger CJ. Arginine nutrition and cardiovascular function. J Nutr.2 00 0. 130: 2626–2629.

18. Palloshi A, Fragasso G, Piatti P, Monti LD, Setola E, Valsecchi G, Galluccio E, Chierchia SL, Margonato A.Effect



of oral L-arginine on blood pressure and symptoms and endothelial function in patients with systemic hypertension, positive exercise tests, and normal coronary arteries. Am J Cardiol.2 0 04. 3 (7): 933-935. 19. Stanislavov R, Nikolova V.Treatment of erectile dysfunction with pycnogenol and L-arginine. J Sex Marital Ther. 2003. 29 (3): 207-213. 20. Battaglia C. Adjuvant L-arginine treatment for in-vitro fertilization in poor responder patients. Hum Reprod.1 9 99. 14 (7): 1690-1697. 21. Maxwell AJ, Ho H-KV, Le CQ, Lin PS, Bernstein S, Cooke JP. L-arginine enhances aerobic exercise capacity in association with augmented nitric oxide production. J Appl Physiol.2 0 0 1. 90: 933–938. 22. Jablecka A, Checinski P, Krauss H, Micker M, Ast J. The influence of two different doses of L-arginine oral supplementation on nitric oxide (NO) concentration and total antioxidant status (TAS) in atherosclerotic patients. Med Sci Monit.2 0 0 4. 10 (1): CR29-CR32. 23. Fried R, Merrell WC. The arginine solution.1 9 99. Warner Books. Riassunt o L’ossido nitrico (NO) è una specie chimica reattiva centrata sull’azoto prodotta negli organismi viventi a partire dall’amminoacido semi-essenziale L-arginina, grazie all’azione catalitica dell’enzima ossido nitrico sintetasi. Generato quasi ubiquitariamente nell’organismo umano, l’NO modula una serie importantissima di funzioni biologiche a livello di quasi tutti gli organi e sistemi. L’aggiunta di L-arginina alla dieta è in grado di ripristinare la biodisponibilità dell’NO, revertendo almeno in parte gli effetti sfavorevoli di alcune condizioni morbose –in

primis ipertensione arteriosa e disfunzione rettile – legate a deficit di questo importante mediatore biochimico. Parole chiave Ossido nitrico, ossido nitrico sintetasi, perossinitrito, stress ossidativo, L-arginina, disfunzione endoteliale, disfunzione erettile, integratori.

Abst ract Nitric oxide (NO) is a nitrogen-centred reactive species that living organisms produce from the semi-essential amino acid L- arginine, thank to the catalytic action of a specific nitric oxide synthase. Nitric oxide is an ubiquitous molecule with a wide range of biological activities in many organs and systems. Dietary supplementation with L-arginine may at least partially restore NO bioavailability, thus reverting the unwanted effects of some diseases with impaired synthesis/ degradation of such a nitrogen-centred mediator, like arterial hypertension and erectile dysfunction.

Key w ords Nitric oxide, nitric oxide synthase, peroxynitrite, oxidative stress, L-arginine, endothelial dysfunction, erectile dysfunction, dietary supplementation.


Fig 1 : Sintesi dell' NO a partire daal'Arginina
Fig :2 Biodisponibilità dell'NO e malattie

Infertilità Maschile e Diossina

L’esposizione alla diossina

riduce i livelli di testosterone già

a una dose di accumulo di soli 17

ng/Kg, valori facilmente

riscontrabili anche in soggetti

non esposti professionalmente.

La diminuita conta spermatica

sembra essere correlata

all’azione simil-estrogenica della

diossina, lo stesso motivo

chiamato in causa

nell’endometriosi femminile.

Dopo l’incidente di Severo e a 15 anni di distanza,

ancora si registrano un eccesso di nascite di bambini di

sesso femminile che maschile, soprattutto negli uomini che

al tempo dell’incidente si trovavano nella fase puberale o

pre-puberale. Si sono contati, infatti, 50 figli maschi su 81

femmine contro gli attesi 106 su 100. dato il tempo

trascorso, sembra che anche piccolissime quantità di

diossina siano capaci di procurare questo effetto. La

diossina colpisce con effetti teratogeni in particolar modo
Taranto e la piaga dell'inquinamento industriale

l’apparato riproduttivo maschile.

mercoledì 17 novembre 2010

Stress Ossidativo e Patologie Correlate

Lo stress ossidativo è una condiziona patologica che si verifica nell’organismo quando l’equilibrio fra produzione ed eliminazione di radicali liberi viene meno. Una condizione che dipende in buona parte dalla composizione della dieta e che, oltre ad essere associata al fisiologico invecchiamento cellulare, è coinvolta insieme all’infiammazione nello sviluppo di diverse malattie croniche come l’aterosclerosi, l’obesità e il diabete di tipo 2, spesso associati alla sindrome metabolica. Per combattere lo stress ossidativo è molto importante seguire uno stile di vita salutare, basato su poche e semplici regole: non fumare, fare un uso moderato di alcol, seguire un’alimentazione equilibrata e ricca di frutta e verdura, accompagnata da una regolare attività fisica che potenzia le difese antiossidanti dell’organismo.




In quest’ambito NFI – Nutrition Foundation of Italy – Centro Studi dell’ alimentazione – segnala due studi scientifici che confermano come la capacità antiossidante totale della dieta da una parte rifletta i livelli di assunzione di antiossidanti con gli alimenti e dall’altra sia inversamente associata ad alcuni fattori di rischio della sindrome metabolica.



Il primo studio pubblicato su Nutrition ha valutato la relazione fra la Capacità Antiossidante Totale della Dieta (TAC) e diverse manifestazioni precoci della sindrome metabolica in adulti giovani e in buona salute. In 153 soggetti sani con più di 20 anni sono stati analizzati: la pressione sanguigna, alcune variabili antropometriche, i livelli di colesterolo, la glicemia e gli acidi grassi liberi. Dall’analisi dei dati raccolti è emersa un’associazione positiva e significativa fra la TAC della dieta e assunzione di fibra, acido folico, vitamina A e C, magnesio, selenio e zinco. Un’associazione negativa è invece emersa fra TAC della dieta e pressione sistolica, livelli di glucosio nel sangue e di acidi grassi in forma libera, parametri che peggiorano in mancanza di sostanze antiossidanti. Infine è stata evidenziata anche una relazione tra la massa grassa e la carenza di antiossidanti di origine alimentare.



I ricercatori hanno quindi concluso che la TAC della dieta, che riflette i livelli di assunzione di antiossidanti, può essere considerata un elemento importante per la valutazione precoce del rischio di sviluppare la sindrome metabolica,



La revisione sistematica pubblicata su Nutrition Metabolism and Cardiovascular Diseases ha invece preso in considerazione precedenti studi sperimentali e clinici che evidenziano come la maggior parte dei componenti della sindrome metabolica siano associati ad una condizione di stress ossidativo, un elemento importante che contribuisce allo sviluppo di complicazioni metaboliche e cardiovascolari. In futuro la determinazione dello stress ossidativo nei pazienti affetti da sindrome metabolica potrebbe contribuire a identificare quei soggetti maggiormente a rischio di complicanze che potrebbero essere canditati alla cura con terapie più intense.



Fonte : http://www.italia-news.it/

venerdì 12 novembre 2010

DIOSSINA E FERTILITA' MASCHILE

Lo studio, che sarà presentato a settembre al congresso della Società Italiana di Andrologia, rivela che gli uomini italiani dagli anni Settanta ad oggi hanno visto diminuire gli spermatozoi, in un millilitro di sperma, da 71 milioni a 60. E se trent’anni fa uno spermatozoo su due era mobile, ora lo è appena il 30 per cento. I dati, raccolti da Fabrizio Menchini Fabris dell’Università di Pisa, arrivano da diecimila uomini sani e giovani (età media 29 anni). Colpiscono soprattutto le differenze fra le regioni italiane. Così se pugliesi, siciliani e toscani sembrano avere spermatozoi più sani, Lazio, Lombardia e Veneto registrano primati in negativo.



Ma la maglia nera spetta alla Campania e a Napoli, al di sotto della media nazionale. I cumuli di immondizia bruciati per strada forse non sono estranei al risultato, visto che gli esperti puntano il dito contro l’inquinamento, ovvero le discariche abusive, i pesticidi, lo smog. «Esiste una correlazione fra la fertilità e gli inquinanti ambientali. Negli uomini che vivono nei grandi centri urbani, in aree inquinate da rifiuti industriali o zone agricole dove si fa uso di pesticidi, gli spermatozoi sono meno mobili del 20 per cento rispetto a quelli di chi abita nelle piccole città; non solo, anche gli spermatozoi anomali sono il 15 per cento in più», riferisce Menchini Fabris. «Piombo, ossido di carbonio, polveri sottili: li respiriamo ogni giorno e si accumulano nei testicoli — aggiunge Giorgio Piubello, segretario della Società Italiana di Andrologia — . con effetti sul liquido seminale; lo provano gli studi condotti su chi è molto esposto, come i vigili urbani o i casellanti».



Una conferma arriva da Paolo Mocarelli dell’Università Milano Bicocca, già direttore del Servizio di Laboratorio dell’ospedale di Desio (Milano), che per la prima volta al mondo ha dimostrato nell’uomo il collegamento diretto fra l’esposizione alla diossina e una riduzione nella conta degli spermatozoi (lo studio è stato pubblicato su Environmental Health Perspective). È stato possibile grazie a 135 abitanti di Seveso esposti alla nube tossica, gonfia di chili di diossina, uscita dallo stabilimento chimico dell’Icmesa di Meda il 10 luglio del 1976. Da oltre vent’anni Mocarelli studia il loro apparato riproduttivo e confronta i dati con i livelli di diossina assorbita: alcuni di quelli che all’epoca avevano meno di dieci anni oggi hanno un calo del 40 per cento del numero e della motilità degli spermatozoi rispetto ai coetanei non esposti alla diossina. «La diossina e gli inquinanti che agiscono con lo stesso meccanismo, ad esempio i policlorobifenili, interferiscono con gli equilibri ormonali, soprattutto nei bimbi piccoli — spiega Mocarelli — . La sensibilità ai danni da diossina però non è la stessa per tutti e la conta degli spermatozoi delle vittime della tragedia di Seveso non è una condanna senza appello alla sterilità. I dati raccolti indicano, purtroppo, che anche dosi basse di diossina possono compromettere in modo permanente la quantità e la qualità degli spermatozoi». Questo aiuta a spiegare il calo della fertilità nel mondo occidentale: i livelli ambientali della diossina degli anni Settanta e Ottanta erano tre-quattro volte superiori a quelli attuali; la riduzione è merito delle politiche di sanità pubblica, come l’abolizione di piccoli inceneritori e l’adozione di impianti di riscaldamento moderni e vetture a emissioni ridotte. Resta da vedere se tutto questo servirà a migliorare gli spermatozoi. Lunedì inizia la settimana della prevenzione andrologica: in tutte le regioni decine di specialisti saranno a disposizione per visite gratuite.



Elena Meli





Fonte www.corriere.it

07 marzo 2008

mercoledì 20 ottobre 2010

Pesce alleato della prostata malata

Nuovi dati indicano che in chi ha già sviluppato il tumore il consumo di prodotti ittici può migliorare la prognosi



MILANO - Se le potenzialità preventive del pesce nei confronti del diffuso tumore della prostata sono ancora controverse, non si può dire altrettanto quando il cancro ha già colpito. Secondo una rassegna canadese degli studi sul tema, pubblicata sull’American Journal of Clinical Nutrition, pare proprio che mangiare spesso pesce quando ormai il tumore si è già sviluppato possa ridurre il rischio che si formino metastasi e la mortalità.


BENEFICI - Fino ad ora diversi studi hanno evidenziato che il consumo regolare di pesce comporta alcuni benefici per la salute tra cui una riduzione del rischio di avere un infarto o un ictus, tuttavia è ancora poco chiaro il suo ruolo nei confronti del tumore della prostata. Per cercare di chiarire questo punto i ricercatori canadesi hanno analizzato una trentina di studi sul tema giungendo alla conclusione che il pesce non sarebbe di grande aiuto nella prevenzione di questo tumore, ma gioverebbe una volta che la malattia si è sviluppata. In particolare, dai dati raccolti emerge che gli uomini che mangiano spesso pesce hanno un rischio ridotto del 44 per cento di sviluppare metastasi nonché un rischio ridotto del 63 per cento di soccombere per colpa del cancro.

MECCANISMI - Secondo i ricercatori canadesi gli effetti benefici del pesce potrebbero essere legati all’azione antinfiammatoria degli oli di pesce in grado di contrastare la progressione del tumore. Alcuni studi precedenti hanno infatti evidenziato che i grassi buoni del pesce, i ben noti omega-3, sono in grado di ridurre la progressione del tumore riducendo l’infiammazione e attraverso altri meccanismi.


QUANTITÀ - «Possiamo senz’altro dire che mangiare più spesso pesce può offrire dei benefici, purtroppo però non sappiamo quante sono le porzioni ideali» puntualizza Konrad M. Szymanski della McGill University di Montreal, uno degli autori dello studio. L’impossibilità di dare delle indicazioni precise, spiegano i ricercatori, deriva dall’eterogeneità degli introiti di pesce considerati nei diversi studi. Tuttavia, considerando che mangiare spesso pesce è un toccasana per la salute in generale, sarebbe utile raccomandarne un consumo maggiore negli uomini. «Il tumore della prostata è una malattia molto comune - fa notare Szymanski - e se anche l’impatto del consumo di pesce su di essa fosse modesto, la promozione di una politica di implementazione al suo consumo relativamente economica e facile potrebbe avere complessivamente delle ricadute importanti». Insomma via libera al consumo di pesce, ricordano di variare comunque la tipologia e di abbinarlo ad altri alimenti benefici, a partire da frutta e verdura.



Antonella Sparvoli

20 ottobre 2010

venerdì 1 ottobre 2010

TRATTAMENTO MEDICO E FISICO DELLE PATOLOGIE HPV CORRELATE

Carlo Antonio Liverani

Servizio di Ginecologia Preventiva Dipartimento per la Salute della Donna, del Bambino e del Neonato - Fondazione I.R.C.C.S. - Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena Università degli Studi di Milano

L’infezione da papillomavirus umano (HPV) ha un’elevata prevalenza nella popolazione adulta sessualmente attiva, con stime che arrivano a calcolare che una donna all’età di 50 anni avrà avuto fino all’80% di probabilità di essere venuta in qualche modo in contatto con il virus nel corso della propria vita. Oltre alla cervice uterina, gli HPV sono responsabili di infezioni a livello vaginale, vulvare, perianale ed anale, penieno ed orofaringeo. Occorre distinguere le infezioni subcliniche (diagnosticabili con citologia, colposcopia ed istologia), dalle infezioni cliniche (visibili anche ad occhio nudo, note come condilomi floridi).

Patologie HPV correlate

• Circa il 70% dei cancri cervicali è causato dai tipi di HPV 16 o 18.

• Dal 50 al 60% delle lesioni intraepiteliali di alto grado della cervice uterina (CIN2 e CIN3) è dovuto all’HPV 16 e 18.

• Dall’80 al 90% dei cancri anali è causato dall’HPV 16 o 18.

• Almeno il 40% dei cancri vulvari è correlato all’HPV.

• Percentuali variabili di cancri penieni, vaginali, uretrali, orali (testa e collo) contengono tipi carcinogenici di HPV.

• Il 90% dei condilomi floridi anogenitali è causato dall’HPV 6 o 11.

• La papillomatosi laringea giovanile si verifica in circa 1 su 200.000 bambini al di sotto dei 18 anni di età (raramente i papillomi possono trasformarsi in carcinomi a livello di laringe, esofago, bronchi. Gli HPV 6 e 11 sono i tipi più frequenti nei papillomi del tratto respiratorio ed il tipo 11 è quello che più spesso si associa alla progressione verso il cancro).

INFEZIONE GENITALE SUBCLINICA

Comprende situazioni in cui l’infezione viene diagnosticata sulla cervice dal Pap test, colposcopia o biopsia; a livello vulvare, penieno o di altra cute genitale dalla comparsa di aree bianche dopo applicazione di acido acetico al 5%. Si verifica molto più frequentemente delle lesioni genitali visibili, sia tra gli uomini che tra le donne. A livello cervicale viene spesso diagnosticata dal Pap test unitamente a lesioni squamose intraepiteliali. Non è ancora chiaro se i pazienti con infezione subclinica siano altrettanto contagiosi quanto i pazienti che hanno lesioni esofitiche. In assenza di una coesistente lesione squamosa intraepiteliale, il trattamento dell’infezione subclinica da HPV diagnosticata con colposcopia, biopsia, applicazione di acido acetico o rilevazione dell’HPV con test di laboratorio non è raccomandato. Infatti il valore preventivo del trattamento di queste forme non è dimostrato perché non è stata identificata alcuna terapia che eradichi l’infezione. Inoltre la diagnosi di infezione è spesso una diagnosi non definitiva: una percentuale che arriva fino al 91% dei casi di infezione da HPV si risolve spontaneamente entro due anni. In presenza di una lesione squamosa intraepiteliale invece, il trattamento dovrebbe basarsi sul grado del referto istopatologico. Pertanto la gestione di queste pazienti deve essere finalizzata alla diagnosi precoce ed alla terapia delle lesioni preneoplastiche che eventualmente si associano (CIN, VIN, VaIN, AIN). Le lesioni di basso grado possono essere seguite con programmi di follow-up semestrale data l’elevata percentuale di regressione spontanea, mentre quelle di alto grado devono essere sottoposte ad escissione (con bisturi, raggio laser o radiofrequenza).

Poiché in assenza di una concomitante displasia non si raccomanda il trattamento per l’infezione genitale subclinica da HPV, la valutazione medica dei partner sessuali non è necessaria. La maggior parte dei partner sessuali dei pazienti con infezione da HPV è già probabilmente infetta in modo

subclinico. Lo screening per l’infezione genitale subclinica da HPV mediante test al DNA o RNA non è raccomandato.

INFEZIONE GENITALE CLINICA

Per quanto riguarda invece le forme floride (che rappresentano circa l’1% di tutte le infezioni), queste dovranno essere attentamente valutate e adeguatamente trattate, per l’elevata contagiosità, la possibile presenza di sintomi e l’impatto psicologico che quasi sempre determinano nei soggetti che ne sono affetti: prima di procedere a qualunque tipo di trattamento è però indispensabile escludere le forme pretumorali e tumorali, che talvolta anche nelle condilomatosi floride possono essere associate. Le varie opzioni terapeutiche non sempre risultano efficaci e vi è un alto tasso di persistenza o di recidiva delle lesioni, soprattutto nelle donne immunodepresse. Allo stato attuale delle conoscenze, la terapia chirurgica si è dimostrata superiore alla quella medica.

I condilomi genitali rappresentano la più comune malattia a trasmissione sessuale dei paesi industrializzati. Poiché rispondono male ai comuni trattamenti, essi sono responsabili di una non indifferente morbilità. Più del 90% delle lesioni condilomatose genitali sono associate ai tipi di HPV 6 e 11: questi tipi, pur non essendo associati ai carcinomi cervicali, causano tuttavia gradi minori di displasia che risultano anch’essi in una morbilità, sia per i timori che vengono ingenerati sia per l’overtreatment. Circa due terzi degli individui che hanno un contatto sessuale con un soggetto affetto da condilomi floridi svilupperà condilomatosi, generalmente entro tre mesi dal contatto. I partner sessuali di pazienti con condilomi possono trarre beneficio dall’esame clinico per un’eventuale diagnosi di lesioni genitali e di altre malattie sessualmente trasmesse. L’uso del preservativo può ridurre ma non eliminare il rischio di trasmissione ai partner non infettati: infatti l’infezione può essere trasmessa a livello di aree dell’asta peniena non ricoperte dal preservativo, dell’inguine, dello scroto o del pube. L’impiego del preservativo non si è dimostrato efficace neanche nel migliorare l’esito del trattamento dei condilomi anogenitali, ma, potendo almeno in parte prevenire la trasmissione ai partner non infettati, va comunque incoraggiato. Educazione e counseling sono aspetti importanti della gestione dei pazienti con condilomatosi genitale: i pazienti possono venire informati per mezzo di materiali educativi appropriati, tipo opuscoli e siti web.

I tipi di HPV 16, 18, 31, 33, e 35 vengono occasionalmente ritrovati nei condilomi genitali visibili e sono stati associati alle neoplasie squamose intraepiteliali ed ai carcinomi cervicali, vaginali e dei genitali esterni (vulvari, anali e penieni). Non bisogna dimenticare che pazienti con condilomi genitali visibili possono risultare infettati simultaneamente con tipi di HPV multipli. Non vi sono dati che supportino l’impiego di routine di test virali tipo-specifici nella gestione dei condilomi genitali visibili.

Lo stress psicologico di essere portatori di condilomatosi genitale è spesso maggiore della morbilità della malattia e perciò un trattamento efficace è cruciale. Scopo primario del trattamento dei condilomi genitali visibili è la rimozione delle lesioni sintomatiche. Nella maggior parte dei pazienti il trattamento può indurre periodi di guarigione. Se non vengono trattati, i condilomi genitali visibili possono risolversi spontaneamente, rimanere invariati, oppure estendersi in dimensione e/o numero. I dati esistenti indicano che le terapie attualmente disponibili per i condilomi possono ridurre l’infettività, ma probabilmente non la eliminano. Poiché non esiste un migliore trattamento in assoluto, sarà compito del medico che lo esegue cercare di adattarlo e personalizzarlo al singolo paziente. Qualunque tipo di terapia venga scelta, bisogna ricordare che il DNA virale può persistere in forma latente nel tessuto circostante e può portare a ricorrenza di lesioni visibili.

Le terapie raccomandate per la condilomatosi florida anogenitale si distinguono in terapie applicate dal paziente e terapie praticate dal medico.

Terapie applicate dal paziente:

Podofillotossina soluzione allo 0,5%. Composto purificato estratto dalla pianta Podofillum peltatum. La soluzione va applicata con un batuffolo di cotone sui condilomi genitali visibili, due volte al giorno - mattina e sera - per 3 giorni consecutivi, seguiti da 4 giorni di sospensione del

trattamento. Questo ciclo può essere ripetuto, se necessario, fino ad un massimo di 4 cicli consecutivi. L’area totale da trattare non dovrebbe superare i 10 cm2 ed il volume totale di podofillotossina dovrebbe essere limitato a 0,5 mL al giorno. La sicurezza della podofillotossina in gravidanza non è stata documentata.

Imiquimod crema al 5%. L’imiquimod è un farmaco immunostimolante attivo per via topica, che stimola la produzione di interferoni e di altre citochine. Reazioni infiammatorie locali, da lievi a moderate, sono comuni. La crema va applicata una volta al giorno, alla sera al momento di coricarsi, per tre volte alla settimana fino ad un massimo di 16 settimane. L’area trattata dovrebbe essere lavata con acqua e sapone 6-10 ore dopo l’applicazione. Il costo è elevato e l’efficacia variabile. La sicurezza dell’imiquimod durante la gravidanza non è stata stabilita.

Terapie praticate dal medico:

Crioterapia con azoto liquido o criosonda. Le applicazioni possono essere ripetute ogni 1-2 settimane. La crioterapia distrugge i condilomi per citolisi termo-indotta. L’impiego della criosonda in vagina non è raccomandato, a causa del rischio di perforazione vaginale e la formazione di fistole.

Podofillina resina al 10%-25%. Estratta dalle radici e dai rizomi del Podofillum peltatum, pianta originaria delle regioni orientali dell’America del Nord come anche del podofillo indiano. Un sottile strato di questa resina dovrebbe essere applicato su ciascuna lesione e lasciato asciugare all’aria aperta. Il trattamento può essere ripetuto settimanalmente, se necessario. Per evitare la possibilità di complicazioni associate all’assorbimento sistemico e la tossicità, alcuni Autori raccomandano che l’applicazione sia limitata a meno di 0,5 mL di podofillina o un’area minore di 10 cm2 di condilomi per sessione. Per ridurre l’irritazione locale, la preparazione dovrebbe essere completamente rimossa con acqua 1-4 ore dopo l’applicazione. La sicurezza della podofillina durante la gravidanza non è stata stabilita. Recentemente molti Autori non raccomandano più l’uso della podofillina, a causa dei gravi effetti sistemici legati al suo assorbimento oltre che alle severe reazioni locali ed alla scarsa efficacia. Infine sono ben note le sue proprietà teratogene ed oncogene.

Acido tricloroacetico (TCA) o bicloroacetico (BCA) 80%–90%. Sono entrambi agenti caustici che distruggono i condilomi per coagulazione chimica delle proteine. Una piccola quantità di queste sostanze dovrebbe essere applicata solamente sulle lesioni e lasciata asciugare, finché non si sviluppa una specie di “brina”. Se l’acido viene applicato in eccesso, l’area trattata dovrebbe essere cosparsa di talco, bicarbonato di sodio, o sapone liquido. Questo trattamento può venire ripetuto settimanalmente, se necessario. Benché questi preparati siano ampiamente utilizzati, essi non sono stati completamente studiati. Soluzioni di TCA hanno una bassa viscosità, paragonabile a quella dell’acqua e possono diffondersi rapidamente se applicati in eccesso; perciò possono danneggiare i tessuti adiacenti.

Rimozione chirurgica mediante escissione tangenziale con forbici, bisturi, curettage, o elettrochirurgia, inclusa l’ansa diatermica (LEEP) e il Laser: dopo avere praticato un’anestesia locale, i condilomi visibili vengono fisicamente demoliti. Il raggio Laser e la LEEP esercitano le loro funzioni di taglio-coagulo con gli stessi meccanismi termici ed alle stesse temperature. In entrambi i sistemi il danno termico è contenuto dall’involucro di vapore che evita la dispersione termica nei tessuti. Sia l’elettrochirurgia a radiofrequenza che la chirurgia con Laser richiedono un apparecchio per l’aspirazione dei fumi: è dimostrato infatti che tali fumi contengono DNA virale potenzialmente in grado di causare negli operatori un’infezione da HPV del tratto respiratorio. Indipendentemente dalla tecnica, il 20-30% dei pazienti svilupperà nuove lesioni ai bordi del tessuto trattato e/o in sedi remote. La “laservaporizzazione” consiste nella distruzione del tessuto fino al piano chirurgico interessato, mentre la “laserescissione” consente di escindere il tessuto e quindi permette l’esame istologico del pezzo operatorio. Pertanto la prima tecnica va riservata solo a lesioni superficiali, lesioni condilomatosiche, o aree limitate di lichen scleroso, mentre la seconda viene utilizzata per le VIN, lesioni pigmentate, o comunque ogniqualvolta possano esservi dubbi interpretativi.

Il trattamento con 5-Fluorouracile in crema al 5% non è più raccomandato, a causa dei gravi effetti collaterali, che possono dare problemi anche a lunga distanza (neovascolarizzazione, bruciore vulvare, teratogenesi). Inoltre il suo utilizzo nella gestione dei condilomi anogenitali non è previsto dalla licenza del prodotto ed è a totale responsabilità del medico.

Trattamenti in gravidanza

Imiquimod, podofillina e podofillotossina non dovrebbero essere utilizzati durante la gravidanza. Dato che i condilomi genitali possono proliferare e divenire friabili nel corso della gestazione, molti specialisti sostengono la necessità della loro rimozione in gravidanza. I tipi di HPV 6 e 11 possono causare papillomatosi laringea nei neonati e nei bambini: la via di trasmissione (transplacentare, perinatale, o postnatale) non è completamente chiarita. Il valore preventivo del taglio cesareo non è noto; perciò il parto cesareo non dovrebbe mai essere effettuato al solo intento di prevenire la trasmissione dell’infezione da HPV al neonato. In gravidanza la terapia più efficace della condilomatosi genitale è probabilmente rappresentata dalla Laser chirurgia.

Trattamenti in pazienti immunocompromessi

L’immunodeficienza inibisce l’eliminazione dell’infezione da HPV e facilita la sua riattivazione. Soggetti immunodepressi a causa di infezione da HIV o per altre ragioni, possono non rispondere alle terapie per i condilomi anogenitali alla stregua dell’ospite immunocompetente e possono manifestare più frequenti recidive dopo trattamento. Carcinomi squamocellulari che insorgono in condilomi o che assomigliano ai condilomi possono inoltre verificarsi più frequentemente fra gli individui immunodepressi, richiedendo pertanto un maggiore ricorso alla biopsia per la conferma della diagnosi. Data l’aumentata incidenza di cancro anale nei maschi omosessuali sieropositivi per HIV, alcuni Autori raccomandano lo screening citologico per le lesioni squamose intraepiteliali anali (AIN) in questa popolazione. Le complicanze emorragiche ed infettive durante e dopo terapia, nelle pazienti HIV positive sono più importanti rispetto alle pazienti HIV negative. Le donne con infezione da HIV presentano anche un rischio più elevato di coinfezione con più tipi di HPV e la coinfezione potrebbe costituire un altro fattore di rischio indipendente di progressione. È stata inoltre descritta una chiara correlazione tra bassi livelli di CD4 e un numero più elevato di tipi HPV. Ciò depone per la persistenza o la riattivazione di infezioni da HPV preesistenti, in un quadro generale di compromissione della risposta immunitaria. Il fatto che più tipi di HPV siano stati descritti anche in una significativa percentuale di donne HIV negative, suggerisce l’esistenza di un sottogruppo di donne con una risposta immunitaria all’HPV intrinsecamente deficitaria.

COUNSELING SUGGERITO

I papillomavirus che colpiscono il tratto genitale inferiore (collo uterino, vagina, vulva e ano) sono di differenti tipi e possono provocare schematicamente 5 differenti scenari:

1) Assolutamente niente. È questa l’evenienza sicuramente più comune nella donna sana, non fumatrice e non immunodepressa. Come i virus sono venuti, così se ne vanno.

Terapia: nessuna.

2) Condilomi floridi. Sono lesioni contagiose, che è consigliabile eliminare tanto nella donna come nell’uomo. Si tratta di lesioni benigne, come le verruche, ma che possono recidivare spesso, causando notevoli disagi anche psicologici. Colpiscono circa l’1% della popolazione sessualmente attiva.

Terapia: asportazione chirurgica, vaporizzazione Laser o radiofrequenza, talora applicazione di particolari sostanze.

3) Lesioni squamose di basso grado. Sono lesioni ad alta probabilità di regressione spontanea, ma che è sempre doveroso indagare con la colposcopia (per confermare la loro natura).

Terapia: osservazione.

4) Lesioni squamose di alto grado. Sono lesioni ad alto rischio di diventare cancro, che è doveroso trattare chirurgicamente.

Terapia: conizzazione con ansa termica (LEEP o tecniche analoghe).

5) Lesioni ghiandolari. Si tratta in questo caso, fortunatamente molto più raro dei precedenti, di lesioni pericolose, ad elevato potenziale oncogeno e che possono ripresentarsi anche dopo LEEP. Se l’esame istologico definitivo è di adenocarcinoma in situ, sarà più prudente asportare tutto l’utero, almeno nelle donne che non vogliono più figli.

Terapia: isterectomia totale.

Conclusione

Allo stato attuale, purtroppo non ci sono evidenze che indichino che i trattamenti oggi disponibili per le lesioni genitali da papillomavirus:

1) eradichino l’infezione da HPV,

2) influiscano sulla storia naturale dell’infezione,

3) diminuiscano l’infettività,

4) influiscano sullo sviluppo del cervicocarcinoma.

Solo l’estendersi di programmi vaccinali contro l’HPV potrà cambiare questa situazione. Gli adolescenti sessualmente attivi hanno i più elevati tassi di infezione da HPV prevalente ed incidente, con percentuali superiori al 50-80% di probabilità di sviluppare infezioni entro 2-3 anni dopo l’inizio dell’attività sessuale. Questi alti tassi riflettono il comportamento sessuale e la vulnerabilità biologica. La maggior parte delle infezioni ha natura transitoria e non causa anomalie citologiche. Tuttavia un certo numero di adolescenti non si libera dall’infezione. La persistenza dell’HPV è fortemente collegata allo sviluppo di lesioni squamose intraepiteliali di alto grado (H-SIL) e al cancro invasivo. La vaccinazione prima dell’inizio dell’attività sessuale è di fondamentale importanza nell’interrompere la diffusione dell’infezione. Strategie politiche e risorse economiche decreteranno il successo del vaccino.

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